Capitolo 2. La calandrella.
Batuffoli di allodola
In natura esiste sempre una sorta
di eterogenesi dei fini. Cerchi una cosa ne trovi un’altra. Cerchi un occhione,
trovi le calandrelle. Il tesoro è lo stesso, cambia la materia dei preziosi.
Invece di sterline inglesi di fine Ottocento, trovi un Kruger o un lingottino.
Così andai in quella primavera assolatissima, al margine di in fiume, nella
pianura alluvionale, già disgregata in cretti e in tagli traversi come le tele
urlate di Fontana. C’era un campeggio e un qualcuno non mi ricordo chi, un
vattelappesca, disse di aver sentito cantare gli occhioni. Partiamo con Fulvio
e la meta è il principio di Toscana, dove il Lazio lascia spazio a un cartello
stradale. Poi si gira verso mare. In effetti, l’appezzamento segnalato è
aridissimo, lo troviamo subito. Solo che al di là dell’argine, ci sono
graminacee, dietro l’Aurelia, davanti una pineta male in arnese. Il presunto
territorio per occhioni andrebbe benissimo per tutti i parametri fisionomici e
strutturali, un incolto molto arido, tranne che per le dimensioni. Saranno cinque
ettari, una misura che gli potrebbe bastare in aree segretissime e in assenza
di disturbo. Qui così non è. Infatti, non ci sono, perché esploriamo
capillarmente senza “alzare” il chiurlo di pietra.
Però notiamo qualcosa tra le
pieghe della terra e il lilla della borraggine. Se l’allodola canta in una
serie di frasi lunghe, varie ma ripetute senza interruzione, se la cappellaccia
emette degli acuti che sembrano sibili di vento, se la calandra ha un repertorio
più tenorile e pieno di imitazioni e se la tottavilla fa totto-lì al margine di
un boschetto iterando la cantilena, la calandrella ha un canto completamento
diverso, una sola strofa composta di note prima ascendenti, poi discendenti e
basse. Un po’ come la sterpazzola della Sardegna con un timbro da passero. La
calandrella è stravagante: niente affatto ecologicamente plastica, vive
all’interno di uno stretto range di parametri ambientali. E’ una specialista a
bassa valenza ecologica quindi. Come il motacillide calandro, un altro “uccello
fantasma” che si disvela solo a chi ama la steppa e le sassaie. Una
prelibatezza la nostra calandrella, un distillato dei terreni brulli, per un
animo da peccatore. Un uccello di sabbia, che nella sabbia vive, oppure in
pascoli iper-sfruttati o nell’alveo ciottoloso dei fiumi, spingendosi al nord
della penisola, pur restando essendo un uccello dei climi caldi mediterranei.
Nella struttura somiglia a una piccola e compatta allodola, ma ha colori più
ambrati e la testa ha riflessi ruggine che mostra quando solleva allarmata la
piccola cresta rossiccia. Il becco è rosato e conico. Al di sopra delle
scapolari ha una tacca a semiluna nera più piccola che nella calandra. Vista in
volo da sotto sembra del tutto bianco-panna. Fa quasi impressione per la sua
unicità quel chiarore che s’interrompe nel sottocoda scuro, con le timoniere
esterne di nuovo bianche. La calandrella migra sia nelle aree a nord del
Sahara, che in quelle sub-sahariane, utilizzando gli stessi ambienti predesertici
del periodo di nidificazione.
La dieta della calandrella è
separata temporalmente. In primavera è prevalentemente insettivora, nelle altre
parti dell’anno è un’avida divoratrice di grani. E’ che a noi piace
semplificare per inquadrare i fenomeni: ci sono moltissimi cosiddetti
“insettivori”, come ad esempio i Silvidi, che d’inverno la sfangano quasi
esclusivamente a bacche e drupe e molti altri cosiddetti “granivori” che in
primavera integrano la dieta con le proteine della carne, soprattutto ma non
solo, per lo svezzamento dei pulcini. Siamo dei maledetti semplificatori, perbacche.
Nei Coussouls (pascoli) della
Crau, i colori sono pastello, i ciottoli hanno incamerato ferro e sono ipotesi d’ambra
rossa. Una calandrella canta e fa preening dalla sommità di un muretto
divisorio. Anche il suo carattere è pastello. Il giallo delle stoppie è
opacizzato dal riflesso della geologia, ci sono mazzetti di lavanda conficcati
nella pietra. Lei non smette di pulirsi, si vedono le terziarie lunghe, fino al
punto di coprire quasi l’apice delle primarie. Il collo si torce e il becco ora
netta la coda. Starnazzano le grandule in volo sopra di me. Se mai hai avuto
memoria, la stai perdendo in questa immersione di minerali. Apnea di sassi nel
regno dei cieli.
Capitolo 3. Il codirosso
spazzacamino. Il ballerino dei tetti
Inverno 2015.
Periferia di Viterbo. Tra codirosso spazzacamino e pettirosso non corre buon
sangue. A dire il vero tra i pettirossi e gli altri passeriformi non s’instaura
una particolare simpatia. Sì, perché usciamo subito dall’umanizzazione dei
comportamenti animali, il pettirosso difende anche territori invernali con una
certa veemenza ed ogni intruso è un potenziale usurpatore di risorse trofiche.
La femmina dello spazzacamino è diritta sulla diagonale di una staccionata
maremmana di legno dolce, muove ritmicamente la testa per osservare insetti da
predare e si bilancia con le timoniere. Movimenti ondulatori un po’ meno
accentuati rispetto alle ballerine ma dondola anche lui. Una scheggia dal petto
rosso parte da una sporgenza di travertino e lo attacca. Spaventa anche le
cornacchie grigie che banchettavano di residui di panini e lo travolge. Il
codirosso spazzacamino si ritira impaurito, lui il resistente alpino è confuso,
cerca altri posatoi, mentre una civetta miagola in pieno giorno e un gruppo di
verzellino banchetta tra le romici. Poi, a calma ristabilita, lo spazzacamino è
in terra a cercare artropodi tra gli pneumatici di quel parcheggio sterrato,
dove la Melia azedarach riluce con i
suoi doni gialli, dove le cappellacce seguono le increspature del terreno con
il loro compasso lungo e la cresta alzata per metà.
Il codirosso spazzacamino
è un muscicapide e non un turdide, com’era fino a pochi anni fa. La stessa
sorte da pigliamosche è toccata al pettirosso e altri ex turdidi come il
passero solitario e il codirossone. Personalmente detesto questa nuova
classificazione che emerge da studi genetici e che quindi ha un buon approccio
metodologico, forse il migliore, se combinato ad altri aspetti però: comportamentali,
ossei, oologici, ecologici e molto altro. Il perché di questa mia ostilità? E’
solo l’osservazione: alla mia percezione restano turdidi, c’è poco da fare e
sarebbe troppo lungo spiegarlo; sono un po’ la vista e il cuore che me lo
suggeriscono. V’è da dire che il progredire delle ricerche, che in questa
branca della sistematica sono per fortuna fiorenti, avrà nuovi strumenti e
nuove tecniche in futuro e sorprendentemente si è già riscontrato che analisi
fini, hanno portato alla classificazione di nuovi “taxa”, descritti dagli
ornitologi ottocenteschi, dai pionieri cui dobbiamo le fondamenta delle
conoscenze sugli uccelli. Così, io non guardo indietro, anzi mi proietto in
avanti e sfido tutti allegramente: i piccoli turdidi e anche quelli non piccoli
menzionati, lasceranno i muscicapidi e rientreranno trionfalmente fra i
turdidi. Diamine, a ognuno la sua casella.
Il codirosso
spazzacamino a differenza del suo congenere codirosso comune non ha subito
evidenti rarefazioni numeriche nell’ultimo ventennio. Maschi e femmine hanno
piumaggio nettamente separato, almeno in periodo riproduttivo. Il maschio ha la
testa grigio chiara e le parti ventrali di un nero lavagna lucente. La femmina
invece ha colorazione di fondo marrone chiaro, con le ali più scure, mantenendo
in comune con il maschio solo il sottocoda rossiccio. In realtà la colorazione
degli “spazzacamini” è un fenomeno complesso. Maschi del primo anno:
estremamente simili alle femmine, femmine adulte molto simili o uguali ai
maschi riproduttori, per il fenomeno tipico di numerose specie di passeriformi,
che prende il nome di “mascolinizzazione” che è il processo di acquisizione dei
caratteri sessuali secondari maschili in un individuo geneticamente femminile.
E’ prevalentemente insettivoro, ma nell’autunno la dieta è integrata con bacche
di sambuco e altre essenze vegetali.
La Majella a
metà agosto al tramonto è un burrone di luci opacizzate dalla nebbiolina del
mare. Una montagna appenninica e allo stesso tempo mediterranea. Ne senti
l’odore, mentre un gruppo di gracchi corallini risale sfiorando i verbaschi e
si dirige verso roost sconosciuti, nel grembo più roccioso e oscuro della
Montagna Madre. Mi ha preso il cuore la Majella per la sua indole anfibia, per
i suoi ossimori ecologici, per i mugheti e per quei cani massicci con la testa
da orso. Una femmina di codirosso spazzacamino sta imbeccando il suo giovane
che ha da poco lasciato il nido. I ritmi sono frenetici, quasi un’imbeccata al
minuto, gli porta solo larve e la palletta marrone ancora lanuginosa e famelica
gradisce. Spalanca la commessura buccale e ingurgita una cavalletta. Sopra una
staccionata appenninica anche i giovani culbianchi ricevono le cure dei
partner. E’ ora di tornare. La discesa a valle ci porta una poiana in caccia,
un grappolo di colombacci che volano alti sopra i faggi, un incorporeo capriolo
in fondo alla chiaria del bosco in rinnovazione dopo uno dei tanti criminosi
incendi volontari.
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