martedì 26 febbraio 2019

LA TORTORA SELVATICA

E' uscito il mio libro sulla Tortora selvatica Streptopelia turtur.
Si tratta della prima monografia italiana su questa specie.
Il titolo del libro è "LA TORTORA SELVATICA - biologia, conservazione e racconti".
la copertina è dell'amico Marco Preziosii che ha fatto anche 8 disegni in b/n all'interno del testo. La prefazione dell'amico Fulvio Mamone Capria, è un regalo che accetto con grande gioia. Le foto sono dell’autore e di Michele Mendi.
Il libro è ORDINABILE fin d'ora e la data di arrivo del bonifico rappresenterà la prelazione sui tempi di spedizione.
il prezzo è di 20 Euro spedizione compresa.
IBAN: IT22T0893114502000020272944
causale: acquisto libro.
L'uscita è prevista tra fine febbraio e i primi di marzo. Le pagine dovrebbero essere tra le 150 e le 160.
Il libro si divide in due parti: la prima parla della biologia e della conservazione di questa interessante e minacciatissima specie in Europa, considerando le ultime informazioni disponibili nel Paleartico occidentale e le mie ricerche sulla tortora selvatica che stanno continuando; la seconda parte contiene brevi racconti che ineriscono la vita di questo splendido Colubiforme.



alcuni brani, il primo preso dalla prima parte (tecnica) il secondo dai "racconti"







2) Habitat
È una specie di climi caldi temperati e piuttosto secchi, meno legata del colombaccio alle formazioni forestali. La campagna alberata, i margini dei boschi, le aree ecotonali, le zone perifluviali coperte da vegetazione naturale ben conservata, la macchia e le aree cespugliate sono gli ambienti usati di preferenza dalla tortora selvatica. La steppa secondaria mediterranea è ampiamente utilizzata, ma in questo caso in misura maggiore degli altri, la specie necessita di punti di abbeverata nei pressi del nido. Nidifica anche in filari di alberi, frutteti, zone periurbane e urbane ma in misura notevolmente inferiore rispetto alla congenere tortora dal collare. Evita zone ventose, fredde e montuose, preferendo un range altitudinale di 350-500 m (Cramp, 1985). Evita in eguale misura il bosco chiuso, utilizzandolo solo in presenza di ampie chiarie. In Italia (Brichetti e Fracasso 2006), riportano che può raggiungere in Appennino quote oltre i mille m con maggiore frequenza tra quelle di 700-800, in presenza di aree con coltivazioni (frutteti misti a colture di girasole e graminacee). Tollera scarsamente la presenza umana ravvicinata, mentre è favorevolmente influenzata da incolti e prati polifiti dove foraggiare. Stradine sterrate e aree a terreno nudo nei pressi delle aree nido sono indispensabili per poter svolgere la parte della sua biologia “terrestre”. Maggiormente influenzata dalla struttura e dalla fisionomia del paesaggio che dall’essenza arborea dove riprodursi, nidifica sulla gran parte delle latifoglie europee, mentre le conifere sono scelte generalmente nella loro fase giovanile. Nel nostro paese, volendo fare una sintesi un po’ spiccia, la tortora selvatica è essenzialmente specie dei mosaici agrari e degli alno-saliceti che bordeggiano fiumi e fossi. In altri paesi l’importanza dei frutteti è maggiore (Spagna, Marocco); in Grecia l’importanza delle conifere non è irrilevante (Bakaloudis et al., 2009) con occupazione di piante della prima e della seconda classe e le piante mature solo occasionalmente. Gli stessi autori hanno creato sperimentalmente radure nella compagine delle conifere ottenendo nelle aree sottoposte al trattamento densità riproduttive maggiori. Anche nelle repubbliche baltiche, Russia e Ucraina le formazioni sparse di aghiformi sono occupate con regolarità nel nord dell’areale distributivo, mentre le latifoglie nella porzione meridionale. Per l’Inghilterra Browne e colleghi (2005) enfatizzano l’importanza delle formazioni ripariali come siti riproduttivi in U.K. ...


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16) Tortore e colombe nella letteratura e nella pittura
La tortora selvatica e in generale i columbiformi hanno da sempre attratto l’attenzione degli uomini, per la loro bellezza e i comportamenti evocativi che si prestano bene ad essere fortemente simbolici.  L’etimo del genere “Streptopelia” deriva dal greco, dove streptos = collare e peleia = tortora, mentre l’epiteto scientifico “turtur” ci viene dal latino e descrive il suo distintivo verso “turr turr” così amato fin dall’antichità.
Nel Canto dei Cantici Salomone si riferisce a lei con questi amorevoli versi: “I fiori spuntano sulla terra; il tempo dei canti degli uccelli è arrivato, e la voce della Tortora si ode nelle nostre terre”. Storicamente la tortora selvatica è menzionata per la prima volta in un libro nell'Esodo (VIII secolo a.C.), e uno dei primi resoconti dettagliati ce lo fa lo storico greco Erodoto circa due secoli dopo che lega la presenza della “nostra” con la comparsa della Fenice uccello sacro e origini di numerosi miti.  Così ci racconta: “Non l'ho mai vista coi miei occhi, se non in un dipinto, poiché è molto rara e visita questo paese (così dicono ad Heliopolis) soltanto a intervalli di 500 anni: accompagnata da un volo di tortore, giunge dall'Arabia in occasione della morte del suo genitore, portando con sé i resti del corpo del padre imbalsamati in un uovo di mirra, per depositarlo sull'altare del dio del Sole e bruciarli”.  Anche William Shakespeare racconta nel suo poema “La fenice e la tortora” le allegorie simboliche delle due entità centrando il fuoco dello scritto nella fine dell’amore ideale. Nel suo Bestiario, l’immenso Leonardo da Vinci mette a fuoco con chiarezza la diversa emanazione simbolica che corre tra le tortore e le colombe. Sono le tortore a simboleggiare l’eterna fedeltà che nasce da un sentimento alto ed eterno, fedeltà che il maestro rende con il termine di “castità”. La tortora non fa mai fallo al suo compagno, e se l’uno more, l’altro osserva perpetua castità, e non si posa mai su un ramo verde e non beve mai acqua chiara” scrive Leonardo. 



domenica 29 aprile 2018

Racconti di penne e di piume del Maediterraneo vol.3


Capitolo 2. La calandrella. Batuffoli di allodola

In natura esiste sempre una sorta di eterogenesi dei fini. Cerchi una cosa ne trovi un’altra. Cerchi un occhione, trovi le calandrelle. Il tesoro è lo stesso, cambia la materia dei preziosi. Invece di sterline inglesi di fine Ottocento, trovi un Kruger o un lingottino. Così andai in quella primavera assolatissima, al margine di in fiume, nella pianura alluvionale, già disgregata in cretti e in tagli traversi come le tele urlate di Fontana. C’era un campeggio e un qualcuno non mi ricordo chi, un vattelappesca, disse di aver sentito cantare gli occhioni. Partiamo con Fulvio e la meta è il principio di Toscana, dove il Lazio lascia spazio a un cartello stradale. Poi si gira verso mare. In effetti, l’appezzamento segnalato è aridissimo, lo troviamo subito. Solo che al di là dell’argine, ci sono graminacee, dietro l’Aurelia, davanti una pineta male in arnese. Il presunto territorio per occhioni andrebbe benissimo per tutti i parametri fisionomici e strutturali, un incolto molto arido, tranne che per le dimensioni. Saranno cinque ettari, una misura che gli potrebbe bastare in aree segretissime e in assenza di disturbo. Qui così non è. Infatti, non ci sono, perché esploriamo capillarmente senza “alzare” il chiurlo di pietra.
Però notiamo qualcosa tra le pieghe della terra e il lilla della borraggine. Se l’allodola canta in una serie di frasi lunghe, varie ma ripetute senza interruzione, se la cappellaccia emette degli acuti che sembrano sibili di vento, se la calandra ha un repertorio più tenorile e pieno di imitazioni e se la tottavilla fa totto-lì al margine di un boschetto iterando la cantilena, la calandrella ha un canto completamento diverso, una sola strofa composta di note prima ascendenti, poi discendenti e basse. Un po’ come la sterpazzola della Sardegna con un timbro da passero. La calandrella è stravagante: niente affatto ecologicamente plastica, vive all’interno di uno stretto range di parametri ambientali. E’ una specialista a bassa valenza ecologica quindi. Come il motacillide calandro, un altro “uccello fantasma” che si disvela solo a chi ama la steppa e le sassaie. Una prelibatezza la nostra calandrella, un distillato dei terreni brulli, per un animo da peccatore. Un uccello di sabbia, che nella sabbia vive, oppure in pascoli iper-sfruttati o nell’alveo ciottoloso dei fiumi, spingendosi al nord della penisola, pur restando essendo un uccello dei climi caldi mediterranei. Nella struttura somiglia a una piccola e compatta allodola, ma ha colori più ambrati e la testa ha riflessi ruggine che mostra quando solleva allarmata la piccola cresta rossiccia. Il becco è rosato e conico. Al di sopra delle scapolari ha una tacca a semiluna nera più piccola che nella calandra. Vista in volo da sotto sembra del tutto bianco-panna. Fa quasi impressione per la sua unicità quel chiarore che s’interrompe nel sottocoda scuro, con le timoniere esterne di nuovo bianche. La calandrella migra sia nelle aree a nord del Sahara, che in quelle sub-sahariane, utilizzando gli stessi ambienti predesertici del periodo di nidificazione.
La dieta della calandrella è separata temporalmente. In primavera è prevalentemente insettivora, nelle altre parti dell’anno è un’avida divoratrice di grani. E’ che a noi piace semplificare per inquadrare i fenomeni: ci sono moltissimi cosiddetti “insettivori”, come ad esempio i Silvidi, che d’inverno la sfangano quasi esclusivamente a bacche e drupe e molti altri cosiddetti “granivori” che in primavera integrano la dieta con le proteine della carne, soprattutto ma non solo, per lo svezzamento dei pulcini. Siamo dei maledetti semplificatori, perbacche.
Nei Coussouls (pascoli) della Crau, i colori sono pastello, i ciottoli hanno incamerato ferro e sono ipotesi d’ambra rossa. Una calandrella canta e fa preening dalla sommità di un muretto divisorio. Anche il suo carattere è pastello. Il giallo delle stoppie è opacizzato dal riflesso della geologia, ci sono mazzetti di lavanda conficcati nella pietra. Lei non smette di pulirsi, si vedono le terziarie lunghe, fino al punto di coprire quasi l’apice delle primarie. Il collo si torce e il becco ora netta la coda. Starnazzano le grandule in volo sopra di me. Se mai hai avuto memoria, la stai perdendo in questa immersione di minerali. Apnea di sassi nel regno dei cieli.

Capitolo 3. Il codirosso spazzacamino. Il ballerino dei tetti

Inverno 2015. Periferia di Viterbo. Tra codirosso spazzacamino e pettirosso non corre buon sangue. A dire il vero tra i pettirossi e gli altri passeriformi non s’instaura una particolare simpatia. Sì, perché usciamo subito dall’umanizzazione dei comportamenti animali, il pettirosso difende anche territori invernali con una certa veemenza ed ogni intruso è un potenziale usurpatore di risorse trofiche. La femmina dello spazzacamino è diritta sulla diagonale di una staccionata maremmana di legno dolce, muove ritmicamente la testa per osservare insetti da predare e si bilancia con le timoniere. Movimenti ondulatori un po’ meno accentuati rispetto alle ballerine ma dondola anche lui. Una scheggia dal petto rosso parte da una sporgenza di travertino e lo attacca. Spaventa anche le cornacchie grigie che banchettavano di residui di panini e lo travolge. Il codirosso spazzacamino si ritira impaurito, lui il resistente alpino è confuso, cerca altri posatoi, mentre una civetta miagola in pieno giorno e un gruppo di verzellino banchetta tra le romici. Poi, a calma ristabilita, lo spazzacamino è in terra a cercare artropodi tra gli pneumatici di quel parcheggio sterrato, dove la Melia azedarach riluce con i suoi doni gialli, dove le cappellacce seguono le increspature del terreno con il loro compasso lungo e la cresta alzata per metà.
Il codirosso spazzacamino è un muscicapide e non un turdide, com’era fino a pochi anni fa. La stessa sorte da pigliamosche è toccata al pettirosso e altri ex turdidi come il passero solitario e il codirossone. Personalmente detesto questa nuova classificazione che emerge da studi genetici e che quindi ha un buon approccio metodologico, forse il migliore, se combinato ad altri aspetti però: comportamentali, ossei, oologici, ecologici e molto altro. Il perché di questa mia ostilità? E’ solo l’osservazione: alla mia percezione restano turdidi, c’è poco da fare e sarebbe troppo lungo spiegarlo; sono un po’ la vista e il cuore che me lo suggeriscono. V’è da dire che il progredire delle ricerche, che in questa branca della sistematica sono per fortuna fiorenti, avrà nuovi strumenti e nuove tecniche in futuro e sorprendentemente si è già riscontrato che analisi fini, hanno portato alla classificazione di nuovi “taxa”, descritti dagli ornitologi ottocenteschi, dai pionieri cui dobbiamo le fondamenta delle conoscenze sugli uccelli. Così, io non guardo indietro, anzi mi proietto in avanti e sfido tutti allegramente: i piccoli turdidi e anche quelli non piccoli menzionati, lasceranno i muscicapidi e rientreranno trionfalmente fra i turdidi. Diamine, a ognuno la sua casella.
Il codirosso spazzacamino a differenza del suo congenere codirosso comune non ha subito evidenti rarefazioni numeriche nell’ultimo ventennio. Maschi e femmine hanno piumaggio nettamente separato, almeno in periodo riproduttivo. Il maschio ha la testa grigio chiara e le parti ventrali di un nero lavagna lucente. La femmina invece ha colorazione di fondo marrone chiaro, con le ali più scure, mantenendo in comune con il maschio solo il sottocoda rossiccio. In realtà la colorazione degli “spazzacamini” è un fenomeno complesso. Maschi del primo anno: estremamente simili alle femmine, femmine adulte molto simili o uguali ai maschi riproduttori, per il fenomeno tipico di numerose specie di passeriformi, che prende il nome di “mascolinizzazione”  che è il processo di acquisizione dei caratteri sessuali secondari maschili in un individuo geneticamente femminile. E’ prevalentemente insettivoro, ma nell’autunno la dieta è integrata con bacche di sambuco e altre essenze vegetali.
La Majella a metà agosto al tramonto è un burrone di luci opacizzate dalla nebbiolina del mare. Una montagna appenninica e allo stesso tempo mediterranea. Ne senti l’odore, mentre un gruppo di gracchi corallini risale sfiorando i verbaschi e si dirige verso roost sconosciuti, nel grembo più roccioso e oscuro della Montagna Madre. Mi ha preso il cuore la Majella per la sua indole anfibia, per i suoi ossimori ecologici, per i mugheti e per quei cani massicci con la testa da orso. Una femmina di codirosso spazzacamino sta imbeccando il suo giovane che ha da poco lasciato il nido. I ritmi sono frenetici, quasi un’imbeccata al minuto, gli porta solo larve e la palletta marrone ancora lanuginosa e famelica gradisce. Spalanca la commessura buccale e ingurgita una cavalletta. Sopra una staccionata appenninica anche i giovani culbianchi ricevono le cure dei partner. E’ ora di tornare. La discesa a valle ci porta una poiana in caccia, un grappolo di colombacci che volano alti sopra i faggi, un incorporeo capriolo in fondo alla chiaria del bosco in rinnovazione dopo uno dei tanti criminosi incendi volontari.


Il libro è disponibile. Costo 17 euro spese di spedizione incluse.
Ordinabile spedendo mail ad: a.meschini@gmail.com

giovedì 21 settembre 2017

Racconti di penne e di piume del Mediterraneo vol. 2

Capitolo 14. Il falco pecchiaiolo, un rapace introverso

Il falco pecchiaiolo deve il suo nome alla strana caratteristica, per un rapace, di alimentarsi di api (pecchie), Anche il nome scientifico, Pernis apivorus lo testimonia. Non è una nomea abusata. Pur non essendo un imenotterofago obbligato, la sua dieta è costituita essenzialmente da api e vespe. La simbologia un po’ teatrale e iperbolica del rapace super-predatore, quindi del “super-rapace”, nel pecchiaiolo non ha proprio ragion d’essere. Un falco dai modi timidi, un gentleman.

Tolfa, 13 luglio 2013. Con Daniele ci aggiriamo fra pascoli e garighe per compiere rilevamenti sull’avifauna. Risaliamo da Prato Rotatore, su per la sterrata. C’è un Pecchiaiolo, posato sopra un paletto di una recinzione di un pascolo di vacche maremmane. Una scena non inconsueta in Maremma, ma sempre ricca di pathos e bellezza. Le tacche marroni sul petto candido, sono uno splendore. In questo scenario fatto di pietre e di una vegetazione arbustiva rada, appare un secondo protagonista del racconto: un’averla capirossa, il passeriforme predatore, che come i suoi congeneri Lanius è una specie bellissima. Non ci aspettiamo, ciò che sta per accadere. La capirossa inizia a volteggiare di fronte al pecchiaiolo, si distanzia un po’ ed è a cinque metri dal rapace. Si mette in stallo ed emette vocalizzazioni d’allarme. Il falco pecchiaiolo appare disturbato, ma ciò che gli stava per capitare, crediamo non se lo aspettasse neanche lui. L’averla capirossa inizia a inscenare attacchi coraggiosi e violenti al “pecchia”. Non sono simulazioni a carattere di avvertimento, arriva come un lampo e artiglia il pecchiaiolo sulla testa ripetutamente, si risolleva e continua gli attacchi, lo becca in posizione carpale con una furia spaventosa. Per il pecchiaiolo è troppo, infastidito e sbalordito, lascia con volo dondolante il posatoio. L’averla vincitrice e baldanzosa torna sulla cima del perastro e strilla. La scena è stata forte e meravigliosa, tuttavia ha una spiegazione piuttosto semplice. Il pecchiaiolo aveva inconsapevolmente superato il territorio riproduttivo di un’averla. Il territorialismo di solito si manifesta nei confronti dei conspecifici, ma non sempre è così: esiste il territorialismo eterospecifico, quando la difesa di un’area o di una risorsa sono rivolte anche nei confronti di individui di altre specie. Il “mobbing” delle cornacchie nei confronti di ogni specie che passa entro i confini dei loro territori, ne è l’esempio forse più eclatante.

DISPONIBILE PRESSO L'AUTORE a.meschini@gmail.com

sabato 11 marzo 2017

Brani da "Racconti di penne e di piume del Mediterraneo"


Brani tratti da “Racconti di penne e di piume del Mediterraneo" - Angelo Meschini




La tortora selvatica, un archetipo di eleganza
…Due tortore selvatiche stanno al centro della strada, indifferenti e bellissime. Raccolgono sassolini nel becco e ne fanno scorta. E’ il cosiddetto “grit” piccole pietre che ingeriscono per rompere il tegumento dei semi più grandi e coriacei che costituiscono la sua dieta. I girasoli, ad esempio, o varie specie di graminacee coltivate. Mangiano sassetti, mentre provo ad accostare. Si involano così leggere in un attimo, producendo un rumore lieve quando la punta delle ali si tocca, nel loro salire rapido in verticale. Colline dolci che strapiombano in una valle incisa da un fiumiciattolo, affluente del Fiume Marta. La vegetazione delle sponde è ricchissima: frassini ossifilli, pioppi neri, ontani, pioppi bianchi e un intrico di filliree, lentischi e stracciabrache. Le tortore selvatiche sono in pieno canto, assieme agli invisibili rigogoli e a qualche cuculo lontano. Quel giorno ero andato per fare un transetto, un percorso a piedi a velocità costante, che in questo caso sarebbe servito a misurare la densità riproduttiva lineare delle tortore selvatiche. Impressionante: in due chilometri, venti coppie, precisamente una ogni cento metri. Una testuggine palustre europea, Emys orbicularis si termoregola sopra un ramo affiorante, i granchi di fiume hanno forellato tutto l’argine di terra. La Maremma, al di fuori dei percorsi più battuti è una fontana di meraviglia e biodiversità. L’acqua mi entra negli stivali, è il momento di tornare, salutando i tori maremmani e gli asini risalendo dal greppo umido alla steppa, dalla steppa al ricovero di fieno dove avevo lasciato l’automobile. La tortora selvatica è specie meno forestale del colombaccio e della misteriosa colombella, frequentando radure, campagne alberate ed ecomosaici. Il nome deriva dall’onomatopea del canto: “Un ruur-ruurr abbastanza sommesso”, che emette ache durante le ore calde della giornata, quando quasi tutte le altre specie tacciono. Il nido è collocato su numerose specie arboree a chioma abbastanza densa e negli ultimi anni, la vituperata e alloctona robinia si dimostra una delle specie selezionate positivamente dalle tortore per costruire casa e nursery. I maschi di tortora selvatica hanno un canto ventriloquo, con il becco chiuso dilatano il gozzo e l’apparato vocale producendo così un suono “meccanico”, dilatando le sacche aeree. La tortora selvatica subì un grosso calo demografico alla fine degli anni ottanta. In seguito alle politiche di set-aside, (il rilascio di terreni a riposo) promosse dalla Comunità Europea, ha ripreso a crescere di numero, anche se resta una specie fragile e da tutelare. La mattina presto al Lago di Vico, arrivano a bere, come fossero ganghe o grandule, silenziose e a piccoli gruppi, scendono fra i carici e timidamente abbassano il capo per rifornirsi d’acqua. Una volpe magrissima passa a dieci metri, andrà in cerca di prede più grandi o non le vede, guada lo stagno con paura, si perde tra le cannucce palustri, pigramente. Arrighi Griffoli racconta nella sua Avifauna della Val di Chiana: “ Alle piogge abbondanti del Settembre, tutte le tortore, che hanno qui dimorato, ci lasciano senza che neppure una ne rimanga indietro”. Così ogni fine agosto, inizia la mia personale danza della pioggia, perché la tortora selvatica è una specie cacciabile e il mio “sentire” non vuole tanta bellezza recisa. E alle prime piogge, anche di metà agosto in effetti, iniziano a migrare, con ancora i giovani imbrancati. Che la loro migrazione sia salva e protetta.




Il passero solitario, le merle bleu.
Andare a Monfrague in agosto è un po’ da incoscienti. Le temperature superano i quaranta gradi quasi tutti i giorni, ma quel caldo torrido si sopporta bene rispetto ai vapori mediterranei. Meglio evitare le ore più calde, se non vuoi carbonizzarti, ma per il resto non ci sono controindicazioni rilevanti. Al Salto del Gitano, i grifoni che fino al levare del sole si stagliavano sulle rocce immobili e pigri, iniziano a mostrare un briciolo di frenesia. Poi iniziano a piccoli gruppi ad alzarsi con quella forza regale che li definisce, iniziano a salire su una termica, spiccano le ali ampie e il collo corto contro le balze del Tago. Scendono e risalgono come immensi aquiloni di penne e piume. Poi comincio a sbinocolare tra le rocce vicine: una monachella nera sale e scende tra le fenditure, non la avevo mai vista e m’incanta. Poi dalla sporgenza dello stesso crinale, sento quelle note flautate e melodiose, che ricordavo di aver ascoltato nelle città medioevali del Centro Italia. E’ “lui”, il passero solitario, un maschio adulto in canto, dalla livrea blu scura e le remiganti nere. In quell’incanto, serviva una canzone adatta, il passero solitario era il bordone di quella sinfonia di biodiversità e di colori. Il passero solitario ha la taglia di un merlo, il corpo è un po’ più slanciato e il becco nero-lavagna è più grosso, con la base molto ampia. Un suo comportamento caratteristico è quello del suo involo, preceduto da una serie di passettini, neanche fosse un cigno che per volare ha bisogno di una trentina di metri a pelo d’acqua per innalzare il suo massiccio aeroplano. “D'in su la vetta della torre antica, passero solitario, alla campagna cantando vai finché non more il giorno; ed erra l'armonia per questa valle”. Come non citare il sommo poeta di Recanati, che sembra ascoltasse e osservasse il passero solitario su un torrione di fronte alla sua dimora. Ma il passero solitario ha attirato l’attenzione di numerosi scrittori, non è passato inosservato neanche al mistico e poeta spagnolo San Juan De La Cruz, che davvero lo descrive mirabilmente. “Le caratteristiche del Passero solitario (Roquero solitario) sono cinque: la prima che vola verso il punto più alto, la seconda che non sopporta compagni, neppure simili a lui, la terza che mira con il becco ai cieli, la quarta che non ha un colore definito, la quinta che canta molto dolcemente”. Una rappresentazione perfetta. Analizzo velocemente i punti due e quattro. La seconda ci dà conto della forte territorialità dei passeri solitari che difendono un territorio molto ampio, la quarta deve riferirsi a osservazioni fatte sulle femmine. In effetti, la femmina di passero solitario è sempre stata “problematica”. Nelle guide sugli uccelli, la femmina è sempre stata illustrata male, partendo dalle bibbie ornitologiche, fin giù alle pubblicazioni più modeste. Rappresentata sempre del tutto marroncina, come una femmina di merlo, credo per una specie di pigrizia imitativa. Una volta, su un forum di natura, lanciai una giocosa invettiva sulla pigrizia dei disegnatori che non osservano le femmine del “nostro” in natura e poi pensano di poterle dipingere. La provocazione era forte, ma fu accolta molto positivamente, il più grande o uno dei più grandi illustratori naturalistici italiani, Lorenzo Starnini, aveva già terminato le tavole del passero solitario per l”’Iconografia italiana”, la più interessante e monumentale opera d’illustrazione dell’avifauna italiana. Iniziammo a parlare, poi a collaborare, poi a diventare amici. Lorenzo rifece le tavole e ritritò il materiale consegnato. L’umiltà è sempre dei più grandi e questo ne è un esempio evidente.





L’assiolo, sinfonia di una nota
A Nord delle foci del Fiume Fiora, al confine tra Lazio e Toscana, c’è un grande bosco di farnie, appena dietro alla spiaggia. Le farnie sono, in Italia, le querce più igrofile e bordano gli stagni e le “piscine” disegnando ombre e riflessi spezzati. Sono molte le specie che annunciano la primavera, la primavera stessa è un annuncio. L’assiolo è senza dubbio una di queste e da metà aprile, qui nel bosco e al margine delle dune lo iniziamo a sentire. Con Roberto e Daniele, e qui per altri scopi, iniziamo distintamente, anche se da lontano: “chiuuu – chiuuu”. Poi, un secondo individuo e un terzo, al limitare del bosco: “chiuuu – chiuu”. Tre individui in meno di un km, se questa sarà una densità riproduttiva di tre coppie al chilometro, è spaventosa, ma è troppo presto per dirlo. La primavera dei gigli marittimi, delle beccacce di mare e dei chiurli piccoli sulla linea di costa, sboccia ora.
“Dov’era la luna? Chè il cielo, notava in un’alba di perla, ed ergersi il mandorlo e il melo parevano a meglio vederla. Venivano soffi di lampi da un nero di nubi laggiù; veniva una voce dai campi: chiù…” L’incipit dell’”Assiuolo” di Giovanni Pascoli è delizioso. Perché quella nota iterata e malinconica arriva sempre all’improvviso e improvvisamente rallegra, facendosi scudo della luna. Il canto è davvero la firma dell’assiolo, malinconico ed evocativo. Il grande Umberto Saba scrive così nella sua poesia all’amata Lina: “Primieramente udii nella solenne notte un richiamo: il chiù. Dell’amore che fu, Lina, mi risovvenne”.
L’assiolo è il più piccolo rapace notturno dell’avifauna europea. I centri di recupero per i rapaci ospitano spesso l’assiolo, e molti rapaci diurni e notturni. Il 75% degli animali portati al CRUMA di Livorno sono appunto rapaci. Dobbiamo parlarne di bracconaggio, perché pensare di sparare a una bellissima specie protetta, è un crimine che non può lasciarci indifferenti. Con l’amico Ivano, ne abbiamo visitati alcuni e l’assiolo rappresentato nella foto, proviene proprio da uno di questi centri che con molto impegno cercano di ridare la vita a questi volatori liberi. A differenza degli altri strigiformi, l’assiolo non caccia topi ma insetti e in grande misura ortotteri. L’adattamento alla visione notturna dell’assiolo e di tutti gli strigidi, consta nell’avere gli occhi in posizione molto anteriore. Entrambi gli occhi così percepiscono una parte del campo visivo in 3D. E’ la cosiddetta visione binoculare, che nei gufi rappresenta i 2/3 del campo visivo totale, che relativamente ad altri uccelli è modesto. Le specie preda, hanno invece un sistema opposto, occhi posti lateralmente, maggiore visione stereoscopica (che gli consente di osservare il potenziale pericolo quasi a 360°) e campo visivo molto più ampio. Vicino a Tuscania, fino metà degli anni novanta, una coppia nidificava all’interno di una palma del genere Phoenix. Andavo spesso a osservarli e la caccia era uno dei momenti più emozionanti. La femmina con i pulli al nido, il maschio aveva due posatoi preferenziali: il ramo di un pino domestico e una rete metallica. Da questi baluardi si tuffava planando lievemente sulle prede immobilizzandole, poi rapidamente le portava al singolare nido nella palma. La notte tra Allumiere e il Tirreno è un caleidoscopio di suoni. La voce metallica dei grillotalpa, il flauto basso dell’allocco, i concerti argentini delle raganelle. Poi lui, l’immancabile “chiuuu-chiuuu” a determinare ritmi e sequenze notturne. In diminuzione fino a inizio duemila, ora le popolazioni di assiolo stanno, almeno localmente, mostrando un piccolo incremento demografico. L’assiolo è un buon bioindicatore della salute dei sistemi agroforestali, degli incolti e dei pascoli, quin